Non avevo mai considerato troppo i Torche fino ad oggi; la band di Miami l’avevo sempre sentita nominare, ma non ho mai provveduto ad approfondire la loro conoscenza. Fino all’uscita di questo nuovo Admission, che esce per Relapse Records dopo il vincente Restarter, considerato dai più il masterpiece attuale della band.
La cosa che mi ha incuriosito fin da subito vedendo alcune foto della band scattate durante vari concerti è stata la presenza, nelle mani dei componenti del gruppo, di chitarre e bassi in alluminio, come da tradizione Travis Bean ed Electrical Guitar Company. Facendo qualche ricerca ho scoperto che i manici usati dal chitarrista (e precedentemente bassista) Jonathan Nuñez sono fabbricati da Robot Graves Industries, piccola azienda produttrice di manici in alluminio per chitarre elettriche appunto. Bellissimi e dal suono pesantissimo.

E da qui è scattata la curiosità di ascoltare qualcosa suonato da questi strumenti che adoro, partendo per l’appunto dall’ultimo disco pubblicato dai Torche. E la sorpresa è stata incredibile. La formula adottata dai nostri è tanto semplice quanto vincente: brani dal minutaggio contenuto e dalla struttura apparentemente facilona, senza virtuosismi di sorta, ma piuttosto ricchi di ritornelli memorizzabili al primo ascolto e strofe solide ed accattivanti. E fin qui sembrerebbe che si stia parlando di un disco pop qualunque. E invece no! Perché ad un’idea di base forte di suo i Torche aggiungono dei suoni tipicamente sludge, che spesso sforano in riff stoner e cavalcate hardcore. E tutto è perfettamente amalgamato grazie ad una produzione stellare che non privilegia solamente la chiarezza e la brillantezza del sound finale, ma esalta invece le asperità ritmiche dei floridiani, soprattutto per quel che riguarda il lavoro eccelso delle chitarre di Nuñez e di Steve Brooks, che è anche il frontman del gruppo. Da menzionare a questo punto anche la particolarità del reparto vocale dei Torche, affidato proprio al solo Brooks: la vocalità del cantante è quanto di più distante dallo sludge si possa immaginare; infatti il baffuto frontman si affida ad un timbro tendente al baritono, profondo e scuro, ma gestito con una compostezza ed una pulizia totalmente atipica nel mondo non solo sludge, ma anche più generalmente rock. Questo, se di primo acchito può far storcere il naso ad alcuni, a lungo andare si rivela il punto di forza vincente dei Torche, che rende ogni brano ben riconoscibile e gli dona un’immediatezza dall’incredibile appeal commerciale.
Ma ritengo azzardato considerare i Torche una band commerciale, anche se i crismi per essere trasmessi su qualsiasi radio rock ce li avrebbero tutti: ascoltate la titletrack, con la sua melodia a cavallo tra shoegaze e dreampop sorretta da uno sferragliante basso stoner, per averne la conferma.
I ragazzi di Miami confezionano undici brani perfetti, dove l’ascoltatore non rischia di abbassare la guardia nemmeno per un attimo. Nessun calo e una durata complessiva che supera di poco la mezzora sono gli ennesimi punti a favore di un disco che segna un ipotetico apice per chiunque voglia scrivere un bel disco di rock viscerale nel 2019. Su riff come quello di On The Wire o Infierno intere band sludge ci fonderebbero una carriera, invece i Torche calibrano i propri ingredienti con il risultato di far aumentare il desiderio di ascoltare ancora e ancora altre invenzioni ritmiche e melodiche di questo calibro.
Un disco che mi accompagnerà sicuramente per molto tempo e che spero possa fare lo stesso per voi. Grandissimi Torche, se passerete dall’Italia non mancherò sotto al palco!
Voto: 9,5/10

Distribuito da: Relapse Records
Data di uscita: 12/07/19
Dove potete ascoltare/acquistare il disco: Bandcamp – Relapse Records