Questo giugno è stato un mese carico di uscite interessanti e assolutamente valide e luglio, da quel che ho avuto modo di ascoltare, si prefigura addirittura migliore! Ma dal momento che il clima ci sta facendo velocemente sciogliere, cerchiamo di combatterlo con i dieci dischi che vi consiglierò in questo nuovo articolo, tra noise, prog, punk, ambient e una notevole scoperta dall’anno precedente molto interessante, sempre con un occhio di riguardo per l’underground.
- CICONIA – “Meraki” (On Fire Records, 11/03/19)

Il primo disco che va a finire in questa lista di consigli di giugno è il terzo album degli spagnoli Ciconia, trio strumentale dedito ad un prog metal con spunti post rock dal notevole impatto atmosferico. Un valido impianto ritmico moderno ed incalzante fa da solida base a un lavoro chitarristico melodico e tecnico, che però non sfocia mai nello sterile onanismo talvolta tipico di questo genere. La proposta nel complesso si avvicina molto più a quella degli Intervals di The Shape Of Colour rispetto a qualsiasi altro disco prog metal più “convenzionale” e questo dona un tocco decisamente personale ai brani, che non annoiano mai, in primis grazie alla durata non eccessiva – ad eccezione del secondo brano in scaletta Depaysement, che dura dieci minuti, ma fila che è un piacere – e in secondo luogo grazie alla buona eterogeneità che caratterizza la struttura dei singoli pezzi, dal clean math rock e a tratti jazz di Eunoia fino ai ritmi shuffle e quasi nu metal di Lost In The Wadi, che mostra anche il lato aliencore della proposta, misto ad atmosfere orientaleggianti stranianti, ma incredibilmente accattivanti. E poi ancora il thrash metal dell’opener Litost e la chiosa finale al profumo di riverbero e delay di Starlight, post rock emozionale di assoluto livello. Un disco da non perdere se siete amanti di queste sonorità, ma che potrebbe sorprendere anche ascoltatori molto distanti dal genere.
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- YAWNING MAN – “Macedonian Lines” (Heavy Psych Sounds Records, 14/06/19)

Penso che gli Yawning Man non abbiano assolutamente bisogno di presentazioni, una vera e propria leggenda nella scena heavy psych, attivi fin dal lontano 1986 e con ormai otto dischi alle spalle, senza contare Ep, live e partecipazioni varie. Normale quindi che l’annuncio di un nuovo disco della formazione californiana sia stato accolto con un’ondata di irrefrenabile entusiasmo dagli aficionados del genere, anche perchè il precedente album del 2018 The Revolt Against Tired Noises (quanto ho amato quella copertina) ha riscosso un bel successo presso il pubblico e Macedonian Lines era quindi atteso al varco con altissime aspettative. Aspettative che non sono state affatto deluse dal terzetto formato da Gary Arce, Mario Lalli e Bill Stinson, i quali confezionano sei brani di narcotica psichedelia desertica che ancora oggi è capace di insegnare moltissimo e soprattutto di ammaliare e catturare l’ascoltatore con il proprio ritmo pacato e pachidermico e le melodie ripetitive delle chitarre che si perdono tra strati di polvere ed incensi tipicamente stoner. I nostri non hanno bisogno di eccessive distorsioni o fuzz per ricreare il sound tipico di un trip lisergico, tanto che si affidano anche a suoni pianistici in qualche caso (Melancholy Sadie) con risultati assolutamente eccezionali. Il basso regna incontrastato in Bowie’s Last Breath, mentre talvolta le atmosfere si fanno talmente psichedeliche che vengono quasi in mente i viaggi spaziali infiniti dei giapponesi Acid Mothers Temple; infine c’è l’intro straniante di I Make Weird Choices che ricorda molto da vicino In The Court Of The Crimson King degli immortali King Crimson, che meraviglia! Ma tutto l’album nel complesso è un compendio di desert rock da manuale, capace seriamente di mandare il cervello dell’ascoltatore in un’altra dimensione senza possibilità di tornare indietro. Vietato ascoltare Macedonian Lines in macchina, assolutamente! Piuttosto sdraiatevi sul letto, spegnete le luci e lasciate che le spire sinuose degli Yawning Man vi stringano nella loro dolcissima morsa. Sarà stupendo.
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- OBIISSS – “Female Fronted Is Not A Genre” (Devizes, 17/05/19)

Sapete che gli Ep sono per me un qualcosa di strano, capace di esercitare un fascino diverso da un Lp, perché in pochissimo spazio/tempo le canzoni contenute nel dischetto devono sapere trasmettere in modo concreto e diretto il proprio messaggio e la propria dimensione artistica. In questo caso l’obiettivo è stato raggiunto in modo ineccepibile: Holly Johnson, voce delle Dark Mother, e Paul Kinney, produttore e musicista presente in numerosi progetti come Fukpig, Mistress e Kroh, hanno unito le forze durante una pazza sessione di registrazioni presso gli studi di Birmingham di proprietà dello stesso Kinney durante il febbraio di quest’anno e il risultato è questo Ep di tre pezzi dal titolo programmatico, di cui ho voluto parlare nella rubrica di giugno poiché è stato il mese del Pride e tematicamente questi brani vi sono collegati in un qualche modo. Generi di riferimento: grunge, di quello sporco e sgraziato, che mixa ferocemente al suo interno influssi hardcore e stoner, con una rabbiosa voce femminile che rivendica l’appartenenza artistica al movimento riot grrrl; il duo parla di aggro-fuzz e io dico che non vi può essere denominazione più adatta. Immaginate le L7 che jammano coi Fu Manchu e avrete un’idea indicativa del sound degli Obiisss. I tre pezzi sono come tre cazzotti in pieno volto, che risultano leggermente più lievi solo nel momento in cui la Johnson addolcisce la voce per costruire dei ritornelli melodici, ma al contempo velenosi e potentissimi. Tra non molto la band dovrebbe uscirsene con un Lp nuovo di zecca e io non vedo l’ora, ma nel frattempo questi tre brani sono una costante fissa delle mie giornate.
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- LUNGBUTTER – “Honey” (Constellation Records, 31/05/19)

Ok, un disco così non lo troverete da nessuna parte quest’anno, quindi già ora vi consiglio di andarvelo ad ascoltare. Prendete i Sonic Youth, i Melvins, i Flipper e i The Jesus Lizard, poi aggiungete un pizzico di Merzbow e l’amore per lo sludge più putrido, così come per il punk più oltranzista, e avrete ottenuto una stranissima miscela che risponde al nome di Lungbutter. Honey è il disco di debutto per questo essenzialissimo trio chitarra, batteria e voce narrante, che arriva dopo un demo pubblicato nel 2014 su cassetta (Extractor) e la sua irruenza paragonabile all’effetto della carta vetrata sulle vostre parti intime è qualcosa di difficilmente descrivibile. Non c’è traccia di melodia negli undici pezzi del disco, così come non c’è traccia di accordi o note ben individuabili, con l’eccezione di qualche rudimentale e marcissimo riff ad opera della chitarrista Kaity Zozula. La batterista Joni Sadler batte il tempo con una cadenza quasi rituale, mentre a livello vocale la band si fa notare per la sua impostazione decisamente noise, ovvero con un andamento teatrale che preferisce la narrazione al canto: la frontgirl Ky Brooks infatti sceglie un approccio nichilista e minimale, che vede come riferimenti assoluti tanto Lydia Lunch quanto Kim Gordon. Una corazzata tutta al femminile che ha un solo obiettivo: distruggere qualsiasi cosa a colpi di anti-musica. Un concetto vicino per certi versi alla No Wave newyorkese, tanto che le tre ragazze di Montreal potrebbero benissimo ereditare lo scettro di quei mostri sacri che diedero vita a quella scena leggendaria. Vi è un intero universo culturale da scoprire dietro questo album e le vostre orecchie, sebbene non aspettatevi che vi ringrazino, saranno ben liete di prestare attenzione a tutto questo tesoro noise punk. Io sono troppo curioso di vedere ed ascoltare le Lungbutter dal vivo, posso solo immaginare come deve essere! Fiondatevi al più presto su Honey, ve lo consiglio!
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- CAVE IN – “Final Transmission” (Hydra Head Records, 7/06/19)

28 marzo 2018: Caleb Scofield muore in un tragico incidente stradale. Caleb era il bassista e il cantante dei Cave In, band che fin dalla seconda metà degli Anni ’90 ha saputo distinguersi nel vasto panorama alternative metal, con derive tanto metalcore quanto punk, per un risultato che ha contribuito a definire meglio gli estremi di quello che oggi chiamiamo post metal. Dopo un periodo di estrema notorietà, con l’album Antenna (2003), uscito per RCA e un tour di supporto a pesi massimi del rock mainstream come Foo Fighters e Muse, la band ha subito una perdite talmente importante che avrebbe decretato la fine assoluta di nove band su dieci. Ma non i Cave In, che infatti hanno deciso di comporre Final Transmission come tributo all’amico e compagno scomparso – già tributato tra l’altro con il super evento A Celebration of the Life and Art of Caleb Scofield, con la partecipazione di Isis e Pelican tra gli altri – utilizzando materiale che Caleb aveva già sviluppato in precedenza o stava ultimando di comporre. La chitarra acustica iniziale della titletrack è un buon esempio di questa sincera celebrazione: qualche bozzetto appena accennato con la voce di Scofield che prova a mettere in fila riff ed accordi per un nuovo pezzo. Sono brividi veri quelli che iniziano a propagarsi su per la schiena. E l’aura di Caleb si percepisce in tutti i brani, che sono talvolta poco più di un’idea che avrebbe bisogno di essere forse sviluppata meglio, ma l’intenzione è sempre quella di metter al centro la personalità del defunto bassista, attraverso i testi ricavati dai suoi diari, resi dal chitarrista Stephen Brodsky con una delicatezza tale da emozionare realmente tantissimo. Il post metal dei nostri trova la sua massima espressione in brani come Winter Window e Lanterna, ma in realtà ogni singola nota di questo disco ha un significato più ampio, che va oltre il “suono” per raggiungere l’anima di chi ascolta. Così che anche la grezzissima Led To The Wolves, posta in chiusura, acquista un senso decisamente più compiuto, dietro la sua maschera punk e fangosa. Parliamo di emozioni, quelle vere.
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- GIANT DWARF – “Giant Dwarf” (Self Released, 9/05/19)

Un tricheco gigante campeggia sulla copertina di questo disco degli australiani Giant Dwarf e sapete cosa vi dico? Che è l’immagine più azzeccata per descrivere la musica del quintetto stoner. Chitarristi di tutto il mondo, vi piace il sound del Fuzz Factory di ZVEX? Io non sono sicuro che sia il pedale usato dai chitarristi della band, ma il sound del fuzz di questo disco è talmente compresso e “gnarly” (rende molto di più il termine inglese in questo caso) da ricordarmi tremendamente quello di quell’iconico pedale. Il debut della band di Perth rappresenta una bella ventata di novità nel panorama stoner ed heavy psych, che come dico sempre, da un po’ di anni è veramente saturo di proposte estremamente nella media se non banali. Ma i Giant Dwarf riescono a conquistare l’attenzione dell’ascoltatore grazie ad otto brani estremamente catchy per il genere, che da una parte guardano con nostalgia agli Anni ’70, ma dall’altra risultano estremamente moderni, prendendo in prestito soluzioni talvolta psichedeliche, talvolta anche pop, trovando in Mastodon e Queens Of The Stone Age, così come in Frank Zappa e Blue Cheer, dei validi punti di riferimento. Bastano i primi due brani in scaletta per risultare vincenti su tutta la linea, grazie a linee vocali e cori azzeccatissimi ed estremamente cantabili unite ad una resa sonora che rende giustizia a tutti gli strumenti, trattati in modo vintage, ma resi perfettamente attuali da una produzione all’altezza. Il resto del disco regala momenti di assoluto godimento, in bilico tra acidissimo blues (Kepler) e jam strumentali degne di Woodstock (Strange Wool). Ancora una volta un punto importante a favore della band risiede nella durata non eccessiva dei brani che rende l’album nel complesso estremamente scorrevole e godibilissimo dall’inizio alla fine. Sicuramente una perla per tutti i cultori dello stoner e della psichedelia acida. Da notare che il disco è disponibile solo in digitale, ma io spero che la band possa trovare il modo di poterlo pubblicare anche in formato fisico, perché credo che ne valga decisamente la pena per la musica che offre.
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- NAUTHA – “Tutti I Colori Del Buio” (Self Released, 7/11/18)

Quando la band in questione mi ha contattato quel che mi ha colpito subito della loro proposta, ancor prima di ascoltare una singola nota, è stata la scelta di comporre un disco che affonda saldamente le proprie radici nello stoner/grunge, sporcato di psichedelia e riferimenti prog rock, con testi e canti in italiano. Una scelta che, checché se ne possa pensare, ancora oggi risulta inusuale e rara, ma che io supporto con tutto me stesso, anche perché con la mia band da un po’ di anni promuoviamo questo modo di suonare e comporre, prescindendo dal genere di riferimento, ma rivendicando l’uso della lingua italiana, che non si adatta solamente al pop o al cantautorato da classifica, ma si può anche utilizzare con risultati egregi in generi apparentemente estranei al suo uso “socialmente accettato”. E quindi già per questo dovreste ascoltare il debutto dei romani Nautha, che attraverso dieci brani decisamente variegati riescono a regalare un album che costituisce una novità per quel che mi riguarda nell’universo rock underground italiano: la prima particolarità da sapere prima di approcciarsi al disco è che tutti i brani sono stati registrati in presa diretta e a giudicare dal risultato finale, l’urgenza espressiva della band si percepisce appieno, sebbene mitigata da strutture ritmico-melodiche ragionate e ben scritte, che mettono in primo piano le voci, spesso doppiate ed armonizzate, e il basso, slabbrato e strafottente, capace di rubare la scena alle chitarre in più di un’occasione. Le chitarre infatti sono delle comprimarie importanti nei brani dei Nautha, ma non sono mai davvero protagoniste, preferendo sostenere i brani con soluzioni ritmiche compatte alternate ad arpeggi mai scontati ed assoli presenti, ma mai troppo ingombranti. Una scelta compositiva che dona maggior risalto ancora una volta alle voci e sopratutto ai testi, vero fiore all’occhiello del terzetto romano. Questi infatti si servono dell’italiano nel modo meno banale possibile, attraverso una scelta lessicale oculata e colta, che si configura talvolta in modo poetico, talvolta in modo più prosastico, come nell’incipit di La Rivoluzione, forse il mio brano preferito del disco: “Non c’è niente in te, che sia esaltazione o lacrime, misterioso re che fugge dai paradigmi della vanità”; questo pezzo tra l’altro mi ha ricordato moltissimo le atmosfere del primissimo disco de Il Balletto Di Bronzo, non so per che motivo, forse per l’andamento delle strofe e per il break atmosferico centrale. La suite che segue poi, intitolata Millenovecentoottanta, parte con un coro degno degli Alice In Chains (ispirazione presente un po’ in tutto il disco a mio parere) e si sviluppa in un modo talmente accattivante da non far assolutamente pesare gli abbondanti otto minuti di durata, grazie anche all’intervento della voce femminile durante i cori, che dona nuova freschezza alla musica dei nostri. Jerry Cantrell approverebbe secondo me. Comsì come approverebbe il breakdown finale spacca cervicale di Akhenaton, brano di chiusura dell’opera. Ma non voglio svelarvi troppo, sappiate solo che sono stato felicissimo di scoprire questo disco uscito ormai lo scorso novembre, ma ancora attualissimo; il consiglio è quello di ascoltarlo al più presto con i testi sotto mano, per entrare nel concept oscuro dell’album e carpirne tutte le sfumature non solo musicale, ma anche a livello lirico; l’unico appunto che si può fare è che in qualche sporadico caso le linee vocali non funzionano appieno, sacrificate dalla solita scelta lessicale che prediligendo termini e strutture molto belle dal punto di vista puramente linguistico, perdono un po’ di immediatezza sotto il profilo musicale, ma è anche vero che è una sensazione questa, assolutamente personale e che non scalfisce minimamente il lavoro ottimo dei Nautha. Ma quando arriverà il prossimo disco – spero a breve! – sono certo che i tre ragazzi romani sapranno scolpire ancora meglio la propria proposta anche da questo punto di vista. Per ora complimenti, tantissimi. Davvero.
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CULT OF TERRORISM – “megváltozhatatlanság” (Toten Schwan Records, 29/05/19)

Il titolo di questo album è in lingua magiara e significa “immutabilità”, la cruda impossibilità di cambiare le situazioni che ci circondano giorno dopo giorno. Questo concetto è ciò che sta alla base dei sette brani contenuti nel disco, che cercano di dare una forma all’immutabilità come sentimento reale e castrante della società e della vita che subiamo inermi ogni giorno. Ora posso finalmente dirlo: avevo parlato con estremo entusiasmo di Il Freddo Di Quel Che Esiste, precedente disco di Joshua Pettinicchio, mastermind dietro il progetto COT, qui lo scorso anno ed ora mi trovo a consigliarvi senza indugi il suo ultimo parto artistico, che esce sotto l’egida della fidata Toten Shwan Records. Ma la curiosità che vi rivelo ora è che il buon Joshua mi aveva fatto ascoltare il disco già molti mesi fa e io approfitto anche di questa occasione per ringraziarlo infinitamente della sua gentilezza. Com’è però questo megváltozhatatlanság? Innanzitutto è un disco che potrebbe essere considerato come un unico flusso musicale ininterrotto lungo quasi quaranta minuti, dove il dark ambient è il genere assoluto di riferimento, esplorato con un’intensità decisamente più profonda rispetto al disco del 2018, anche grazie alla presenza di alcuni ospiti di riguardo come Jacopo Mittino (52-Hearts Whale), Valerio Orlandini, Daniele Santagiuliana (Testing Vault) e Angelo Guido (meanwhile.in.texas), che offrono la propria esperienza per arricchire la proposta di COT. Il risultato è veramente interessante e significativo poiché i sette brani si configurano come momenti fortemente introspettivi e riflessivi, da ascoltare magari in cuffia in mezzo ad un bosco, con l’accompagnamento dei soli suoni della natura. La cupezza dei sintetizzatori raggiunge un livello ansiogeno incredibile in episodi come Il Sequestro Emozionale Prima Dell’Ultimo Gesto e ritrova invece la dimensione noise che avevo apprezzato nel disco precedente in La Fortezza Di Spine, che ricorda le atmosfere infette dei Progetto Nenia, con l’intervento vocale di Valerio Orlandini che risulta decisamente azzeccato. La titletrack chiude il disco con un sentore di inquietudine estremo, che vi rimarrà appiccicato alla pelle per giorni. Un album estremamente ragionato e meditato da parte di Joshua, che fa prendere una piega più mirata al proprio progetto. Mancano quegli elementi ritmici che mi avevano fatto adorare brani come Il Cannibale, dal precedente disco, e ad un primo ascolto questo apparente difetto mi ha un attimo destabilizzato, ma la verità è che megváltozhatatlanság è un disco totalmente dedito all’ambient, in ogni sua forma, e in questo trionfa senza timore e riuscendo a centrare la propria proposta con precisione e maestria. Un altro centro pieno, che vi accompagnerà nei momenti più lugubri di questa estate.
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VR SEX – “Human Traffic Jam” (Dais Records, 10/05/19)

Un disco scorrettissimo questo dei Vr Sex, gruppo parallelo ai più celebri Drab Majesty (di cui parleremo tra qualche giorno) e formato dal chitarrista di questi ultimi, Andrew Clinco, che per questo progetto si presenta con lo pseudonimo di Noel Skum. Se la proposta della band madre consiste in un sincero tributo alla new wave e al dream pop dei bei tempi andati, quella dei Vr Sex mantiene coordinate simili, ma vira verso lidi decisamente più oscuri e veloci, strizzando l’occhio alla darkwave e all’industrial. Il tipico synth punk venato di death rock della band si unisce poi ad un’inscindibile dimensione visiva, ben rappresentata ad esempio dai propri videoclip, come questo: una sorta di super 8 ricolmo di immagini macabre e splatter, dove l'”estremo” regna sovrano. Un mondo industriale dominato dalle macchine e dalla tecnologia, dentro il quale l’uomo non è più padrone nemmeno di se stesso. Tutto questo grande concept ricopre i brani e l’immaginario della band, tanto che la tensione robotica è ben percepibile durante tutta la durata del disco. La band poi si presenta sotto le sembianze di cowboys gotici, come già i Fields Of The Nephilim facevano negli Anni ’80. Ma l’immagine dei Vr Sex è tendenzialmente più essenziale e nichilista, così come la propria musica. Lasciatevi abbattere dai beats impazziti di Maiden China, che potrebbe benissimo essere stata composta dai Ministry, e fatevi ammaliare dai soffici synth di Facts Without Faces, i colori sgargianti della copertina di Human Traffic Jam vi entreranno talmente forti nel cervello che sarà difficile liberarvene.
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- VERONICA MOSER – “Presents: Neurodiversity Fight Back!” (Ho.Gravi.Malattie., 3/07/19)

Come si fa a parlare in modo sensato di ciò che ho appena ascoltato? Credo sia impossibile e forse anche poco sensato, valutando il disco che sto per consigliarvi. E credetemi, se ve lo consiglio è perché mi ha sconvolto, il che è una diversa forma di piacere. Infatti siamo di fronte ad una compilation a cura di Veronica Moser, artista inclassificabile in bilico tra harsh noise, ambient, industrial ed ogni tipo di devianza sonica esistente al mondo. Quindici brani estremamente tossici e ruvidi, che sbattono in faccia – e nei timpani – all’ascoltatore tonnellate di scorie dissonanti elettroniche con l’irruenza di un carrarmato. Non vi basta tutto ciò? Allora soffermatevi per un istante su Garageband Untitled, firmata da Glass Earth, unico frammento melodico della raccolta coi suoi arpeggiatori lentamente sommersi da drones nauseanti, perché sarà uno dei pochissimi momenti di respiro che avrete durante l’ascolto. Il progetto noise greco Mai12 è responsabile invece degli scricchiolii estenuanti di Porto Sventura A Chi Bene Mi Vuole, che ricrea l’effetto di un falò crepitante ricolmo di cenere che pian piano si sgretola sotto le fiamme. Il resto del disco è un turbinio di noise industriale vagamente fantascientifico, per merito delle voci distorte che intervengono di tanto in tanto, che sbriciola ogni residuo melodico e ritmico presente in questa manifestazione artistica di puro nichilismo e vi farà fischiare le orecchie per giorni. The Virgin’s Sacrifice In Pagan Ritual con i suoi cori gregoriani e le campane a morto potrebbe stare benissimo su un disco di Antonius Rex, se non fosse che alla fine del brano intervengono scintille nucleari al vetriolo che riportano il brano su coordinate industriali. La conclusione dell’album è di quelle da rimanerci secchi però: m2 è un concentrato di harsh noise di merzbowiana memoria, ma esasperato da volumi intollerabili a cura di Zeitgeist, mentre Yorgas Helmet chiude la compilation con un mix di ambient catartico dalla durata considerevole intitolato Yemeni Space Fighters. Un vero e puro delirio da provare assolutamente, per vedere se si è in grado di sopportare tutto questo. Ultima menzione per l’etichetta italiana Ho.Gravi.Malattie., che seguo con interesse da qualche tempo grazie ai packaging meravigliosi che dedica ad ogni sua uscita, con un occhio di riguardo per il mondo delle cassette, che io adoro.
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