Giappone, rock psichedelico, chitarre ricolme di fuzz, Acid Mothers Temple, infinite jam lisergiche, atmosfere ipnotiche e spaziali, la follia più totale. Questo è ciò a cui si va incontro quando ci si approccia a Turn On, Turn In, Freak Out!, secondo full lenght del power trio del Sol Levante Hibushibire, che arriva al traguardo di questo disco dopo i buoni risultati ottenuti grazie al debutto del 2017 Freak Out Orgasm, album che ha consolidato la notorietà della band al di fuori dei propri confini.
Sono arrivato a conoscere questi pazzi giapponesi totalmente per caso, ma mi sono innamorato all’istante della loro proposta basata su lunghe cavalcate chitarristiche immerse nel fuzz-sound Anni ’60 e imbastardite da effetti elettronici spaziali che rendono ogni brano un vero trip allucinogeno capace di mandare in orbita chiunque.

Parlavamo in apertura del come una band giapponese possa riuscire ad emergere all’infuori del proprio Paese e a questo riguardo è lo stesso capo di Riot Season Records, etichetta inglese che si occupa di promuovere e distribuire in tutto il mondo gli Hibushibire, a dirci come funziona oggi il mercato a riguardo:
[Parlando del disco precedente del 2017] Ha raccolto parecchie influenti recensioni underground e sembrava che si vendesse solo con il passaparola – che in questi tempi sembra essere il modo in cui vanno le cose: gruppi di entusiasti sui social network che condividono il loro amore per gli acquisti più recenti e di conseguenza appassionati di vinili che escono e li acquistano senza la necessità di comprare una rivista o di leggere una recensione online per farsi un’idea prima.
Proprio grazie a questo crescente passaparola e all’influenza di un’etichetta inglese, la band è riuscita ad imbarcarsi in un tour nel Regno Unito nel 2017 e nel maggio di quest’anno ha bissato l’esperienza, trovando proprio in Inghilterra un bel po’ di appassionati.
C’è anche da dire che il rock psichedelico giapponese ha da sempre attirato le fantasie dei più maniacali conoscitori ed esploratori della scena, me compreso. Ed è anche vero che proprio il Giappone è il Paese che ancora oggi continua ad apprezzare la tradizione musicale europea (ed anche italiana soprattutto) degli Anni ’70, tanto che quasi tutte le vecchie glorie del progressive rock ancora in attività passano obbligatoriamente, prima o poi, da Tokyo. E gli Hibushibire riescono esattamente a coniugare la passione orientale verso il rock degli anni d’oro con una tendenza all’esasperazione lisergica e al rumorismo estremo che non ha eguali al giorno d’oggi, almeno secondo il sottoscritto.
Quando infatti partono le prime note di chitarra di Ecstasy Highwaystar (i tributi già si sprecano), straziate dal wah wah che rende le noti suonate simili a quelle di un clarinetto – giuro non scherzo – e subito dopo si vola altissimi con un riff pregno di fuzz che si situa a metà strada tra lo stoner rock e il grunge, la mente dell’ascoltatore è già arrivata in orbita, persa tra i fumi che i tre musicisti riescono ad evocare grazie a pochissimi, ma incredibilmente indovinati, ingredienti. Il cantato è forse l’elemento che non riesce a convincere in mezzo all’amalgama psichedelico messo in campo dai nostri, ma esso non sarà comunque preponderante nel corso dello svolgimento dei brani.
Non si fa in tempo a prendere coscienza della fine del brano che è già partita l’infinita jam spaziale di Blow! Blow! Blow!, che fa ruggire una chitarra stavolta leggermente più composta, ma sempre frenetica nei propri assoli e nei riff acidi che ricordano i mitici Blue Cheer. Con uno stop’n’go decisamente “desertico” si fa poi largo un break più disteso, con il quale la mente già provata dell’ascoltatore prende definitivamente il volo. Lo spettro della migliore psichedelia americana dei Sixties permea tutto il brano, che non perde un attimo di concretezza sebbene si tratti fondamentalmente di una lunga improvvisazione chitarristica. Sul finale si intensifica la potenza dei riff e si fa notare anche l’afflato noise del terzetto, che trova il culmine negli ultimi secondi del brano. Un terremoto sonico degno dei Boris, se questi fossero nati nel 1969.
La stessa componente noise rimane ben presente nel terzo brano del lotto, Overdose, Pussycat! More! More!, che stavolta è interamente strumentale. Complessivamente il brano non regala grandi sorprese, si fa notare solamente per la chiosa finale dal sapore quasi krautrock, con l’elettronica a farla da padrone.
Il disco si chiude nell’unico modo possibile per un’opera del genere, ovvero con una lunghissima suite strumentale di oltre diciassette minuti intitolata Rollercoaster Of The Universe, la quale dietro molteplici sfaccettature, offre tutto il background dei nostri al massimo dello splendore (scelta analoga i nostri l’avevano già effettuata sul disco di debutto). La verità è che dietro questo monstrum sonoro che ricorda tanto i Grateful Dead quanto gli Smashing Pumpkins di Silverfuck (ve la ricordate la versione live di trentacinque minuti datata 1996?), si nasconde il tributo più grande da parte degli Hibushibire ai propri maestri, ovvero gli Acid Mothers Temple.

Non a caso, è proprio il guru dello storico collettivo freak giapponese, Makoto Kawabata, ad aver prodotto questo disco insieme alla band, tra l’altro senza alcuna informazione a riguardo ed essenzialmente lavorando d’istinto insieme a Chang Chang (voce e chitarra degli Hibushibire). Inizialmente il trio aveva intenzione di registrare e produrre il disco in completa autonomia, ma poi ha preferito affidarsi alle mani esperte dell’amico di lunga data Kawabata, il quale ha impresso il proprio marchio in modo indelebile all’album, soprattutto per quel che riguarda l’ultimo brano, senza però snaturare la natura degli Hibushibire, i quali rimangono decisamente più aggressivi degli Acid Mothers Temple e ne condividono al massimo la stessa folle ed anarchica visione psichedelica.
Sarà difficile riprendersi da quest’ultima corsa lisergica tra le spire del basso sinuoso di Hani e della batteria impazzita di Ryu Matsumoto, ma l’esperienza vale decisamente il prezzo del biglietto; se poi aggiungiamo i numerosi samples spaziali che addobbano la seconda metà del brano e la chitarra iper-effettata che crea paesaggi difficilmente descrivibili senza essere sotto l’effetto di qualche sostanza psicotropa, allora ecco creata la hit dell’estate per tutti gli amanti del rock psichedelico più distopico ed hippy del 2019.
Certamente, la proposta alla lunga potrebbe anche stancare, ma gli Hibushibire sono bravi nel mantenere la durata di Turn On, Turn In, Freak Out! decisamente affrontabile, senza lasciarsi andare a lungaggini estreme che rischierebbero davvero di compromettere l’ascolto dell’intera opera. Anche questo è un aspetto da premiare e che rende il disco meritevole del vostro ascolto. Terminato questo album non vi sentirete più gli stessi, garantito.
Voto: 7,5/10

Distribuito da: Riot Season Records
Data di uscita: 10/05/19
Dove potete ascoltare/acquistare il disco: Bandcamp
Da oggi, se l’album è disponibile su Youtube, vi metterò direttamente qui il link per l’ascolto: