Ci si potrebbe fermare al titolo e avreste già una recensione più che esaustiva. Ma in questo caso stiamo parlando di un disco tanto viscerale che vale la pena parlarne un po’ più a fondo, per farvi capire quanto un album del calibro di Krigsdøger sia importante per la scena black metal attuale e quanto il suo impatto devastante debba essere accolto da quanti più ascoltatori possibili.
Direttamente dalle stregate lande norvegesi (e da dove, altrimenti?) e per la precisione dall’incantevole Trondheim, arrivano K e KK, rispettivamente chitarre e synth e batteria, basso e voci, un duo che ha all’attivo diverse pubblicazioni sotto il monicker Gjendød, tra demo e compilation, ma che con quest’ultimo disco firma il traguardo del secondo full lenght. E se il primo di questi, intitolato Nedstigning (2017), pagava un tributo sincero all’operato di band come i Darkthrone, in questo nuovo Krigsdøger il duo ha voluto alzare decisamente l’asticella, prendendo spunto a piene mani dalla tradizione black metal degli anni ’90, in particolare quella della loro terra d’origine, e rielaborandola in maniera estremamente personale, componendo nove brani che sembrano usciti direttamente dai Grieghallen studios nella prima metà degli anni ’90.
Tutto, dalla stupenda copertina – la quale si avvale di un dipinto del pittore norvegese August Cappelen (1827-1852) – fino alle scelte di produzione, profuma di True Norwegian Black Metal e riesce ad essere estremamente credibile senza cadere nel pacchiano o nella sterile emulazione.
Om å tro fa da apripista a questi quaranta minuti scarsi di rasoiate senza pietà e a partire dalla prima nota si può sentire come nulla sia stata lasciato al caso da K, che si è occupato di missaggio e mastering in prima persona: le chitarre zanzarose più che mai in primo piano e la batteria, che pur essendo ben percepibile in ogni sua componente, gode di suoni estremamente lo-fi; infine la voce che è relegato in fondo al mix, usata come strumento tra gli strumenti, tra screaming lancinanti e parti leggermente più contenute. Ma non aspettatevi neanche un istante di voce pulita, qui siamo in territori veramente primordiali, ma trattati con sapiente maestria. Unico particolare che ci riporta lucidamente al 2019 è il suono del basso, che resta estremamente percepibile e chiaro in tutti i pezzi, guadagnandosi anche lo spazio per eseguire brevi linee melodiche, come ad esempio in En pålagt byll. Una scelta questa, che denota una precisa volontà da parte della band ed è un bene, dal momento che le parti di basso in questo disco sono talvolta molto interessanti e non scontate e donano freschezza e longevità ai singoli brani.
La scaletta si muove su queste coordinate lungo tutto il suo svolgimento, ma senza rimanere impigliata in limiti autoimposti, anzi, variando le componenti i nostri riescono a creare un amalgama sonoro vario ed estremamente compatto: dai riff oscuri e sulfurei che richiamano i primi Mayhem – Å puste liv i råttent kjott su tutte, con il suo andamento lento che conferisce forse l’unico attimo di respiro a tutto il disco – alle lievi linee melodiche di synth che puntellano brani come la titletrack, la quale sfiora addirittura lidi symphonic black metal e ricorda i migliori Emperor, alle intelligenti partiture di chitarra acustica, che emergono in pochi momenti centellinati per donare un’atmosfera bucolica a brevi attimi di alcuni brani, tra cui spicca senza alcun dubbio l’ultima Ut fra livet, che racchiude in sé tutte le caratteristiche esposte nei brani precedenti.
Ma nessun pezzo è da meno in questo album: su Livet ditt aleggia lo spirito dei Satyricon, mentre su Hold pusten regna l’aura di Burzum, con gli inconfondibili semitoni che resero immortali arpeggi come quello di Dunkelheit che qui riaffiorano prepotentemente. In questo brano tra l’altro, che è il più lungo del disco, vi è anche un ospite dietro al microfono, ovvero Storhetsvanviddets Mester, maglio conosciuto nei panni di Ghash dietro le fila di band come Keep Of Kalessin.
E se è vero che nel descrivere i brani di questo disco ho spesso fatto ricorso ad esempi e ad altri gruppi, è altresì vero che questi sono dovuti e credo siano sinceri omaggi da parte dei Gjendød a quei gruppi che li hanno ispirati e continuano a guidarli sulla via della nera fiamma. Se nel disco precedente il faro più luminoso era rappresentato dall’influenza dai Darkthrone, qui in Krigsdøger questa si perde quasi totalmente, per andare verso molteplici direzioni. Se proprio dovessi trovare un’influenza che guida per la maggior parte questo album, credo che essa potrebbe essere quella di Burzum, che emerge nelle parti vocali e soprattutto nei numerosi arpeggi, tetri ed opprimenti (ma soprattutto sempre in tonalità minori o diminuite), che accompagnano gran parte dei pezzi di Krigsdøger.
I temi poi di cui il disco si fa portatore sono temi cari al classico black metal norvegese, come le proprie radici pagane ed un conseguente odio anti-cristiano, la morte, vista come estremo sacrificio, e la vita, interpretata come una continua guerra quotidiana.
Se siete nauseati dalla svolta che il black metal sembra aver preso da qualche anno a questa parte, tra strani incroci con lo shoegaze, il rock’n’roll, eteree voci femminili e melodie folk che rovinano l’essenza malefica e putrescente di questo genere maledetto, allora Krigsdøger è l’album che fa per voi. Ascoltatelo fino alla nausea e scoprirete che comunque non ne sarete ancora sazi. La Norvegia ha ristabilito ancora una volta la propria supremazia sulla musica che ella ha creato e sviluppato e che sempre resterà legata alle proprie terre e ai propri abitanti, alle storie e ai sentimenti che si nascondono solo e soltanto in quei boschi innevati ed oscuri ricolmi di puro male e note glaciali. I Gjendød sono il True Norwegian Black Metal di oggi.
Voto: 9/10

Distribuito da: Hellthasher Productions – Darker Than Black Records
Data di uscita: 9/03/19
Dove potete ascoltare/acquistare il disco: Bandcamp – Youtube
Un pensiero riguardo “GJENDØD – “KRIGSDØGER”. Trve Norwegian Black Metal!”