Ah quando si parla di emo… Quanti ricordi si accavallano nella mente di quei ragazzi che hanno vissuto l’epopea (e la decontestualizzazione) del genere/trend emo all’inizio degli anni 2000 senza sapere minimamente da dove derivasse quel termine e perciò andando a ricercare le più inconcepibili spiegazioni nei meandri dell’internet, finendo il più delle volte per fare una clamorosa figuraccia davanti agli amichetti che chiedevano delucidazioni di fronte ai vistosi ciuffi colorati che progressivamente contribuivano alla perdita di diottrie dei soggetti menzionati poc’anzi.
Ma per chi sa a cosa ci si riferisce davvero quando si parla di emo in campo musicale, il nome del gruppo di cui andremo ad occuparci oggi non sarà per nulla sconosciuto, anzi, e potrebbe benissimo provocare un tuffo al cuore nelle persone che hanno avuto la fortuna di vedere e vivere invece la nascita e la diffusione di quel genere così strano e indefinibile a cui facevano riferimento gruppi seminali come Rites Of Spring ed Embrace – le due meraviglie più belle nate dallo scioglimento degli immensi Fugazi – nella prima metà degli anni ’80. E se l’emo come genere musicale ormai sembra scomparso dai radar del mainstream – quello stesso mainstream che lo ha rovinato distorcendo la propria visione estetico/artistica – vi sono alcuni esponenti della prima o della seconda ora che timidamente riescono a ritagliarsi ancora un po’ di spazio nel cuore e nelle orecchie di quegli stessi ragazzi che sono mossi dagli stessi sentimenti che resero il genere considerabile come veramente alternativo durante gli anni ’90.
Con questo spirito quindi iniziamo a parlare di LP3, l’ultimo disco dei veterani American Football, veri pionieri di quella seconda ondata (midwest) emo che vide la sua massima espressione verso la fine dei Nineties, periodo invero ricolmo di dischi imprescindibili, ma nel quale trova assolutamente posto il primo omonimo disco della band, pubblicato nel 1999. E proprio a quel manifesto artistico i nostri si sono rifatti fin dalla loro reunion del 2014, alla quale è seguito nel 2016 LP2, il seguito ideale del primo disco, accolto a braccia aperte dai fan e dalla critica. Quindi l’album di cui parliamo oggi si candida come finale di questa ipotetica trilogia che a distanza di vent’anni sembra essere giunta a conclusione. O forse no? Non c’è più una casa in copertina, bensì un tramonto che vira sulle tonalità del viola e col senno di poi questa risulta un’immagine assolutamente rappresentativa.
Possiamo già notare dal minutaggio come LP3 sia l’album più lungo composto dalla band fin dagli esordi, con otto brani per tre quarti d’ora di pura emozionalità. Difatti il punto forte degli American Football è da sempre quello di creare pezzi dalla carica emozionale intensissima, da veri brividi lungo la schiena; aspetto che ovviamente qui non viene trascurato, sebbene in certi casi funzioni benissimo e in altri invece suoni un po’ meno spontaneo come approccio, soprattutto alla lunga. Ma andiamo con calma.
La partenza con Silhouettes è all’insegna di suoni eterei ed impalpabili, con un glockenspiel solitario che accoglie l’ascoltatore e lo accompagna per mano lungo i sette minuti abbondanti del brano, che fa sfoggio di soluzioni atmosferiche ed avvolgenti, con la voce di Mike Kinsella che si muove leggera e sinuosa su un tappeto di synth e chitarre che si intrecciano con incredibile facilità lungo metriche complesse, ma assolutamente accomodanti. La classe non è acqua, per niente, e i quattro musicisti americani ce lo ricordano in ogni nota. Già in questo brano abbiamo tutti gli stilemi del sound che andrà a dare forma al disco: chitarre dal suono cristallino che intessono ricami math-rock con una facilità e una musicalità disarmanti, voci diafane e sospese in uno spazio indefinibile, batteria e basso quadrati e compatti, mai sopra la righe e un suono che nel complesso è corposo e appiccicoso, atmosferico e al di fuori del tempo. Tutto molto bello insomma, almeno sulla carta. Ma quando la ricetta si ripete per più di quarantasette minuti, ci si può anche stancare facilmente.
In Every Wave To Ever Rise incontriamo la prima ospite del disco, ovvero Elizabeth Powell dei Land Of Talk, che dona con la sua voce ancor più eterea di quella di Kinsella, un colore ancor più intenso ad un brano che si muove lungo le stesse coordinate del pezzo precedente, ma con le chitarre stavolta più presenti. E per fortuna, dato che le linee melodiche di questo brano sono meravigliose.
“Truth or dare, love is the cross you bear/ J’ai mal au cœur, c’est la faute de l’amour”.
La malinconia si fa un pelo più rarefatta in Uncomfortably Numb, che vede ospite Hayley Williams, la rosso-crinita frontgirl dei Paramore, per un brano che si adatta perfettamente allo stile della cantante, la quale si prodiga in numerosi controcanti e armonizzazioni che rendono il pezzo in questione uno dei più godibili e “pop” dell’album.
“Sensitivity deprived/ I can’t feel a thing inside/ I blamed my father in my youth/ Now as a father, I blame the booze”.
Le tematiche esposte nel corso del disco fanno capo agli argomenti da sempre principi della poetica di Kinsella, ovvero un’adolescenza mai terminata, con il suo carico di illusioni e tragedie, sogni e speranze, ma visti oggi con la consapevolezza dell’essere un uomo adulto e quindi di avere tutt’altro carico di responsabilità e problemi: l’essere un marito, l’essere padre e l’essere invecchiato, di fronte alle speranze in gran parte disilluse del ragazzino di allora. Una malinconia ed una nostalgia dilagante che si percepisce in ogni brano, anche grazie alla scelta di includere solamente pezzi in mid-tempo o ancor più lenti, senza mai vere e proprie accelerazioni. In questo contesto allora il cantato diventa ancor più dolente e sofferto e riesce ad esprimersi ai suoi massimi livelli.
E tutto ciò è apertamente esplicitato in Heir Apparent, brano strappalacrime che ci regala anche delle incisive parti di pianoforte e flauto traverso a contrastare con le dissonanze chitarristiche che si rincorrono lungo le strofe. Sul finale anche un coro di voci bianche ci ricorda quanto il tema delle scelte sbagliate e delle scuse sia universale. E noi possiamo solo applaudire al cospetto di questa manifestazione di superiorità ed umiltà artistica.
Ma parliamo pur sempre degli American Football e perciò non può mancare la caratteristica tromba di Steve Lamos nella cupa Doom In Full Bloom, il brano più lungo presente in scaletta, e altro candidato a pezzo meglio riuscito del disco.
“You’re buried in the library, just you could hide from me/ I’ve never been so alone/ so desperate to be home”.
Nel trittico finale però si raggiunge l’apice emozionale del disco: in I Can’t Feel You infatti si ha la prima vera accelerazione del disco, con una marcetta andante, dai connotati più moderni del solito, in cui figura l’ultima ospite alla voce, forse la più ingombrante: Rachel Goswell degli Slowdive. Un brano multiforme che ci regala anche un assolo di chitarra, inedito fino a questo punto, e una bellissima modulazione sul finale, che finalmente mette in risalto anche un basso bello agguerrito.
Mine To Miss e Life Support invece potrebbero costituire una sola unica suite, dove la prima parte è composta da un brano melodico ed essenziale, ma comunque ben delineato nei canoni stilistici della band, mentre la seconda parte è un tripudio strumentale di archi e pianoforte, con una chitarra che arpeggia direttamente le corde dell’anima dell’ascoltatore. Un testo toccante, la voce di Kinsella che raggiunge vertici espressivi incredibili e un saliscendi di emozioni da far perdere il fiato. Come terminare il viaggio nel modo più intenso possibile.
Gli American Football sanno come comporre canzoni e sanno su che tasti devono premere per toccare i punti più sensibili dei loro fan, ma qui in questo LP3 se possibile, allargano ancor più la platea di possibili ascoltatori, grazie ad ospiti di lusso e a un mood introspettivo, ma semplice da comprendere e soprattutto da condividere. Math-rock, pop, alternative, indie anche, ma soprattutto tutto quel canovaccio di esperienze e di suoni che hanno reso grande il genere emo, nella sua accezione midwest. D’altro canto però, l’estrema impalpabilità dei brani, la loro leggerezza e soprattutto la scelta di includere in questo disco solamente brani lenti e con pochissimi sussulti strumentali davvero rilevanti, sono aspetti che possono giocare anche a sfavore di LP3, sopratutto nei riguardi di quegli ascoltatori che si stancano facilmente durante l’ascolto di un album, o anche di quelli che provengono da tutt’altro genere e vogliono scoprire la produzione di questo colosso della musica alternativa americana. Sinceramente non mi trovo in quest’ultima categoria e ho apprezzato il disco ascolto dopo ascolto, sicuramente bisogna “sentire” LP3 nei momenti giusti e con la giusta predisposizione per poterne godere al meglio. Se siete in cerca di ritmi forsennati ed incastri al fulmicotone allora forse questo disco non farà per voi; se invece siete alla ricerca di emozioni sincere e brani che esaltino il vostro Io più intimo, allora siete nel posto giusto. Questa è musica per l’anima.
Voto: 8,5/10

Distribuito da: Big Scary Monsters – Polyvinyl – Goodfellas
Data di uscita: 22/03/19
Dove potete ascoltare/acquistare il disco: American Football Official Site – Bandcamp
Un pensiero riguardo “AMERICAN FOOTBALL – “LP3”. A lezione dai maestri!”